Quel che si può essere, quel che si può fare

Frequentarla è come addestrarsi ad affrontare tutte le dimensioni della vita contemporanea per diventare persone capaci di orientarsi negli spazi sempre più dilatati e mobili delle idee, delle culture, delle professioni.


La biblioteca è il mio tempio. È il luogo dove, quando entro, posso mettere in pausa tutto il resto: è la mia boccata d’aria fresca settimanale; è la fonte di nutrizione cognitiva più potente che possa immaginare. Ecco, è il superfood (termine tanto in voga oggigiorno) della mente. Ed è talmente super da adattarsi a ogni suo utente, dandogli tutta l’energia di cui necessita sottoforma di romanzi, giornali, enciclopedie, audiolibri, macchinette del caffè, aule studio, eventi e iniziativa.
È un elemento fondamentale di una dieta per aumentare la materia grigia. Non ci sono controindicazioni, forse solo un effetto collaterale: crea dipendenza.
E quando si sente l’intenzione, la gratitudine, di restituire parte di quell’energia, allora si può diventarne promoter, offrendo quel che si può essere, quel che si può fare.

Supportiamo le biblioteche, aiutiamole a crescere sempre di più.

Crescere in biblioteca

Scoprendo e riscoprendo cosa significhi prendere in prestito un libro

Autrice: Susan Orlean
Traduzione: Alice Raffaele
Illustrazione: Lilli Carré

Sono cresciuta in biblioteca, o almeno, la sensazione è quella. La mia famiglia viveva nei sobborghi di Cleveland, circa un miglio distante dalla facciata della Bertram Woods Branch, una biblioteca afferente al sistema della Shaker Heights Public Library. Per tutta la mia infanzia, a partire da quando ero piccolissima, mia madre mi portò lì un paio di volte a settimana. Entravamo assieme ma, non appena attraversavamo la porta d’ingresso, ci dividevamo, ognuna diretta alla propria sezione preferita. Probabilmente la biblioteca è stata il primo posto dove io abbia mai ottenuto un po’ d’indipendenza. Persino quando avevo quattro o cinque anni, mi era già concesso di muovermi per conto mio. Poi, dopo un po’ di tempo, io e mia madre ci ritrovavamo al bancone con le nostre scoperte. Assieme, attendevamo mentre il bibliotecario estraeva da ogni libro la sua tessera, per timbrarci sopra, con un rumoroso chunk-chunk, la data di scadenza del prestito, storta come le date timbrate in precedenza per altre persone, in altri momenti.

Le nostre visite non duravano mai abbastanza per me – la biblioteca era così generosa. Amavo girovagare tra gli scaffali, percorrendo i dorsi dei libri fino a quando qualcosa non catturasse il mio sguardo. Quelle erano gite da sogno, interludi senza attriti che promettevano di farmi uscire di lì più ricca di quanto fossi entrata. Non era come andare in un negozio con mia mamma, praticamente un tiro alla fune tra ciò che avrei desiderato io e ciò che sarebbe stata disposta lei a comprarmi; in biblioteca no, potevo prendere tutto quello che volevo. Sulla via di casa, amavo tenere stretti in grembo i libri impilati, che premevano con il loro solido, caldo peso, con le loro copertine in poliestere Mylar che si attaccavano alle mie cosce. Era così eccitante andar via da un posto con oggetti che non avevamo pagato; un fremito che anticipava i nuovi libri che avremmo sfogliato. Parlavamo dell’ordine in cui avremmo iniziato a leggerli, una conversazione solenne in cui pianificavamo come ci saremmo regolate in questo periodo di grazia incantato, evanescente, fino alla scadenza del prestito. Entrambe pensavamo che tutti i bibliotecari alla Bertram Woods Branch fossero meravigliosi. Per qualche minuto, discutevamo della loro bellezza. Mia madre poi diceva sempre che, se avesse potuto scegliere una qualsiasi professione, avrebbe scelto di essere una bibliotecaria, e nell’automobile calava per un momento il silenzio, mentre entrambe consideravamo quanto ciò sarebbe stato fantastico.

Quando diventai più grande, iniziai ad andare in biblioteca da sola, trascinandomi dietro tutti i libri che riuscivo a portare. Occasionalmente vi andavo con mia madre, e la gita restava sempre così incantevole come quando ero piccola. Persino al mio ultimo anno di liceo, quando imparai a guidare, io e mia madre ci andavamo ancora assieme di tanto in tanto, e la gita si svolgeva esattamente come una volta, con gli stessi battiti e pause e i commenti e le fantasticherie, lo stesso ritmo dei pensieri. Mia madre è morta due anni fa e, da allora, quando mi manca, mi piace raffigurarci assieme in auto, mentre stiamo andando a fare un’altra magnifica gita alla Bertram Woods.

Alla mia famiglia piaceva un sacco la biblioteca. Eravamo davvero una famiglia di lettori, più il tipo di famiglia da “prendo in prestito un libro” che quella piena di librerie e scaffali a casa. I miei genitori stimavano i libri, ma erano cresciuti durante il periodo della Depressione, consapevoli dell’imprevedibile natura del denaro, e avevano imparato con le cattive maniere che non si dovrebbe comprare ciò che si può prendere in prestito. A causa di questa parsimonia, o forse nonostante essa, erano fermamente convinti che bisognasse leggere un libro proprio per l’esperienza della lettura. Non si doveva leggerlo solo per possedere un oggetto da catalogare e ammirare per sempre; non doveva diventare un simbolo dello scopo per cui era stato acquistato. La lettura di un libro era considerata un viaggio. E non c’era bisogno di souvenir.

Quando venni al mondo, le possibilità economiche dei miei genitori erano discrete, e avevano persino imparato a sprecare un pochino, ma la loro mentalità da età della Depressione obbediva testardamente a certe regole per risparmiare, che includevano anche il non comprare quei libri che avrebbero potuto essere ottenuti facilmente in biblioteca. A casa le nostre librerie mezze vuote contenevano volumi di enciclopedie (un esempio di qualcosa non facilmente prendibile in prestito) e un assortimento di libri che, per una ragione o per l’altra, i miei genitori avevano infine comprato. Tra questi erano inclusi alcuni mitici manuali sul sesso. “Il matrimonio ideale: psicologia e tecnica” è quello che ricordo meglio: lo leggevo quando i miei genitori non erano in casa. Ipotizzo che comprassero questi libri sul sesso perchè sarebbero stati troppo imbarazzati nel presentarli al bancone per il prestito in biblioteca. C’erano anche delle guide di viaggio, alcuni libri di lusso, qualche testo di legge di mio padre, e una dozzina circa di romanzi che ci erano stati regalati, o comunque avevano la loro buona motivazione di essere in nostro possesso.

Quando partii per il college – frequentai la University of Michigan – uno dei modi in cui cercai di differenziarmi dai miei genitori fu il darmi alla pazza gioia nell’acquistare i libri. Credo che fu proprio l’acquisto dei libri di testo a farmi scattare qualcosa. So solo che persi il piacere di quella calma di stare in biblioteca per conto mio e di tenere libri in prestito. Volevo essere circondata da pile e pile di libri, totem delle narrazioni che avevo visitato. Al terzo anno di università, traslocai in un appartamento arredato da diverse librerie, e le riempii di libri rilegati, con copertine rigide. Usavo la biblioteca del college per svolgere le miei ricerche, ma per tutto il resto diventai un’acquirente famelica di libri. Non riuscivo a camminare in una libreria senza uscire con qualcosa in mano, o anche più di una cosa. Amavo l’odore pungente e alcalino dell’inchiostro nuovo e della carta, un profumo che un libro a caso della biblioteca non aveva mai emanato. Adoravo la piega che si formava sul dorso del volume da poco aperto, e il modo in cui le pagine intonse sembrassero umide, quasi come se fossero ancora fresche di stampa. Alcune volte mi domandavo se non stessi cercando di recuperare il tempo in cui durante l’infanzia non ero stata circondata da molti scaffali. Ma il motivo in sé non mi importava. Diventai molto convinta riguardo all’idea di possedere i libri. Alcune volte fantasticavo di avviare una libreria. Se mia madre mi accennava di essere in lista d’attesa per prendere in prestito un libro in biblioteca, la cosa mi annoiava e le chiedevo perché, semplicemente, non andasse a comprarsene una copia.

Quando ebbi chiuso con il college, e con il fare ricerche tra le pila di libri della Harold T. and Vivian B. Shapiro Undergraduate Library, rimossi dalla memoria quelle gite meravigliose dell’infanzia alla Bertram Woods e cominciai, per la prima volta nella mia vita, a chiedermi a cosa servano effettivamente le biblioteche.

Avrei potuto continuare a pensarla così, e avrei potuto passare il resto della mia vita a pensare alle biblioteche solo con nostalgia, nello stesso modo in cui pensavo al parco divertimenti di quando ero piccola, ecco. Le biblioteche avrebbero potuto essere solo un segnalibro della memoria, più che un posto concreto, un modo per richiamare un’emozione di un momento lontano, qualcosa che nella mia mente si era fuso con i ricordi che avevo di mia madre e con il passato in generale. Ma poi le biblioteche tornarono nella mia vita inaspettatamente. Nel 2011, mio marito accettò un lavoro a Los Angeles, così lasciammo New York, dove avevamo sempre vissuto, e ci spostammo a ovest. Non conoscevo bene la città, ma vi avevo trascorso diverso tempo negli anni per fare visita ad alcuni cugini. Quando divenni una scrittrice, mi recai spesso a Los Angeles per lavorare ad alcuni pezzi di giornale e a dei libri. Durante quei viaggi, ero stata alla spiaggia, su e giù per i canyon, dentro e fuori la Valley, avevo camminato per le montagne, ma non avevo mai considerato il centro città, pensando che fosse solo un panorama inespressivo di edifici che si svuotavano ogni sera alle cinque in punto. Pensavo a Los Angeles come a una radiante ciambella, orlata da un oceano latteo e da montagne spinose, con un grande buco al centro. Non ero mai andata alla biblioteca pubblica, non avevo mai considerato l’idea, anche se sono sicura presupponevo ce ne fosse una, e quasi certamente una filiale principale, probabilmente in centro.

Mio figlio stava frequentando la prima elementare quando ci trasferimmo. Uno dei suoi primi compiti nella scuola nuova fu di intervistare qualcuno che lavorava per la città. Gli suggerii di parlare con uno spazzino o con un ufficiale di polizia, invece lui disse di volere intervistare un bibliotecario. Eravamo ancora nuovi in città che dovemmo cercare l’indirizzo della biblioteca più vicina, che si rivelò essere la Studio City. Era circa a un miglio da casa nostra, la stessa distanza che c’era tra la Bertram Woods e la mia casa d’infanzia.

Mentre stavamo andando a incontrare il bibliotecario, sentivo una strana sensazione allo stomaco, dovuta a quel viaggio genitore-figlio verso la biblioteca. Ma ora i ruoli si erano cambiati, e io ero il genitore che portava il figlio a fare quel giro speciale. Parcheggiammo e camminammo verso la biblioteca, avvicinandoci per la prima volta. L’edificio era bianco e alla moda, con un caminetto verde menta a forma di fungo. Non assomigliava per niente a quello robusto e pieno di mattoni della Bertram Woods, ma quando entrammo dentro il lampo di riconoscimento che mi colpì fu così forte che mi fece sussultare. Erano passati decenni, mi trovavo a duemila miglia di distanza, ma mi sentivo esattamente come se fossi stata riportata velocemente a quel preciso istante e posto, quando stavo entrando in biblioteca con mia madre. Non era cambiato nulla – c’era sempre lo stesso rumore leggero tsk-tsk-tsk di penna sulla carta, e l’attutito mormorio dei frequentatori assidui seduti ai tavoli al centro della stanza, il cigolio e il gemito dei carrelli per i libri e il rumore di un libro lasciato cadere sulla scrivania. Il bancone di legno segnato, e le scrivanie dei bibliotecari vaste come delle barche, e la bacheca con i suoi annunci strappati e svolazzanti: non era cambiato niente. La percezione di quelle attività delicate e regolari, come una pentola d’acqua che cuoce lentamente, era sempre la stessa. I libri sugli scaffali, nonostante qualche rimozione e qualche aggiunta, erano certamente gli stessi.

Non fu come se il tempo si fosse fermato in biblioteca. Fu come se fosse stato catturato lì, collezionato lì e in tutte le biblioteche – e non solo il mio tempo, la mia vita, ma allo stesso modo il tempo di tutti gli uomini. Nella biblioteca, il tempo si conserva dentro – non è solo fermato, bensì è salvato. La biblioteca è un centro di raccolta di narrazioni e di persone che vengono a cercarle. Vi si può intravedere l’immortalità; nella biblioteca, noi possiamo vivere per sempre.

Così l’incantesimo che già una volta mi aveva colpito si rinnovò. Forse non era mai stato rotto, anche se ero stata lontana abbastanza a lungo che sembrò come visitare un paese che avevo amato ma che avevo dimenticato, mentre la mia vita galoppava via. Sapevo cosa voleva dire volere un libro e comprarlo, ma avevo dimenticato cosa si provasse a passeggiare lentamente tra gli scaffali della biblioteca, trovando il libro che stavo cercando ma anche osservando i suoi vicini, notando la loro peculiare armonia, e seguendo l’idea che veniva trasmessa da un libro al successivo, come nel telefono senza fili. Potevo cominciare dal codice Dewey 301.4129781 (“Pioneer Women” di Joanna L. Stratton) e poco più in là ritrovarmi al 306.7662 (“Gaydar” di Donald F. Reuter) e poi al 301.45096 (“I sogni di mio padre” di Barack Obama) e infine al 301.55 (“L’uomo che fissa le capre” di Jon Ronson). In uno scaffale della biblioteca, si proseguiva in un modo logico ma anche sbalorditivo, misterioso, irresistibile.

Sapevo che parte di ciò che mi aveva catturato era stato lo shock di familiarità che avevo provando portando mio figlio alla biblioteca locale – il modo in cui mi aveva riportato alla mia infanzia, alla relazione con i miei genitori, al mio amore per i libri. Mi aveva portato vicino, nelle mie riflessioni, a mia madre e alle nostre visite in biblioteca, e decisi quindi di scivere un libro sull’argomento. Quella decisione fu piacevole e fu dolceamara, perché mentre io stavo riscoprendo quei ricordi, mia madre stava perdendo i suoi. Quando le dissi per la prima volta che stavo scrivendo qualcosa sulle biblioteche, lei ne fu deliziata, e disse che era orgogliosa di avere avuto un ruolo nel farmele trovare meravigliose. Ma il motivo per cui mi ero finalmente decisa – per cui volevo, e poi avevo bisogno, di scrivere a riguardo – era stata la consapevolezza che la stessi perdendo. Presto le grinfie della demenza la strinsero nella loro morsa, e le tolsero qualche bit di memoria ogni giorno. La volta successiva che le ricordai del mio progetto e le dissi a quanto stessi ripensando alle nostre gite alla Bertram Woods, lei mi sorrise per incoraggiarmi, ma senza capire davvero di cosa stessi parlando. Ogni volta che le facevo visita, lei arretrava un pochino di più – diventò distratta, assente, persa nei suoi pensieri o forse in quel vuoto oblio che sostituì i ricordi spazzati via – e mi rendevo conto che stavo portando io il peso dei ricordi per tutte e due.

Mi trovai a chiedermi se possa esistere il concetto di ricordo condiviso, se una delle due persone che dovrebbe condividerlo non se lo ricorda più. Il circuito si rompe, la memoria viene oscurata? Mia madre era quella persona al mio fianco che sapeva quanto fossero stati leggeri quei pomeriggi. Stavo scrivendo delle biblioteche perché stavo cercando disperatamente di conservare quei pomeriggi. Mi convinsi che metterli su carta avrebbe preservato il loro ricordo dall’effetto corrosivo del tempo.

L’idea di essere dimenticati è terrificante. Io, personalmente, temo che sarò dimenticata ma che anche tutti gli altri siano destinati a essere dimenticati; che la somma della vita in fondo sia il nulla; che noi sperimentiamo gioie e delusioni e dolori e piaceri e perdite, imprimiamo il nostro piccolo segno nel mondo, e poi spariremo, e quel segno verrà cancellato, come se non fossimo mai esistiti. Se fissiamo un attimo lo sguardo su quella desolazione, la somma della vita diventa nulla e vuota, perché se nulla persiste allora nulla importa. Tutto ciò che sperimentiamo si realizza senza uno schema, e la vita diventa solo un’occorrenza sconcertante, una manciata di note senza melodia. Ma se qualcosa che impari, osservi oppure immagini può essere buttato giù e salvato, e se puoi vedere la tua vita riflessa in vite precedenti, e puoi immaginarla riflessa in quelle che verranno, puoi cominciare a scoprire l’ordine e l’armonia. Comprendi di essere parte di una storia più grande che ha forma e scopo – un passato familiare, tangibile, e un futuro costantemente rinvigorito. Stiamo tutti bisbigliando in un telefono senza fili fatto di lattine e corde, ma siamo ascoltati, e così possiamo sussurrare il messaggio alla lattina successiva attraverso un’altra corda. Scrivere un libro è un atto di difesa assoluto. È una dichiarazione di fiducia nella persistenza della memoria.

Lo scrittore Amadou Hampâté Bâ una volta disse che, in Africa, quando una persona anziana muore, è come se fosse bruciata una biblioteca. La prima volta che sentii questa frase, non la compresi, ma nel tempo arrivai a capire quanto sia perfetta. Le nostre menti e le nostre anime contengono volumi incisi con le nostre esperienze ed emozioni; la coscienza di ogni individuo è una collezione di ricordi catalogati e conservati all’interno, una biblioteca privata di una vita vissuta. È qualcosa che nessun altro può interamente condividere; brucia completamente e sparisce quando moriamo. Ma se siamo in grado di prendere un pezzo della nostra collezione interna e condividerlo – con una persona o con un pubblico più ampio, in una pagina o in una storia raccontata – allora esso acquisterà una sua, propria, vita.

Originally published on NewYorker.com (https://www.newyorker.com/culture/personal-history/growing-up-in-the-library); Reprinted by permission; Susan Orlean 2018